z_BUTTARE_

Brigidini: il dolce “sbagliato” delle monache

XVI secolo, Toscana: nel convento di Montalbano, le monache “brigidine”, nel realizzare le ostie, per distrazione sbagliarono l’impasto!
un errore da cui, con l’aggiunta di anice stellato, nacquero I brigidini.

La leggenda narra che intorno al XVI secolo, in un convento di Lamporecchio, nel territorio pistoiese del Montalbano, alcune monache “brigidine” intente a realizzare le ostie per la comunione, si ritrovarono per errore un impasto diverso da quello previsto, che prevedeva solo farina, acqua e olio. Non potendolo usare per realizzare le ostie, e per evitare che andasse sprecato, decisero di trasformare l’impasto in qualcosa di nuovo, un dolce, aggiungendovi un tocco di anice.

Per realizzare i dolcetti, le monache utilizzarono la stessa attrezzatura a piastra riscaldata usata per la produzione delle ostie. I dolcetti vennero chiamati brigidini come le monache, votate alla santa Brigida di Svezia, vissuta nel XIV secolo. Secondo un’altra leggenda fu proprio la santa ad inventare questi dolci e a svelarne la ricetta alle suore.

Una ricetta semplice e deliziosa
La ricetta dei brigidini è semplice. Bastano pochi ingredienti: farina, uova, zucchero ed essenza o semi di anice.
Appena realizzati sono mollicci, ma visto il loro ridotto spessore si raffreddano rapidamente accartocciandosi un po’ e diventando rigidi e croccanti, ma molto friabili: basta toccarli per ridurli in pezzi. Di colore giallo chiaro (dovuto alla presenza delle uova) e con un raggio di circa 7 centimetri, oggi vengono confezionati in bustine verticali.

Fiere inondate dal profumo d’anice
Il prodotto ebbe tale successo da essere adottato nelle case di Lamporecchio, il paese dove sorgeva il convento delle brigidine, e molto rapidamente si diffuse negli altri paesi della zona di Pistoia e poi in tutta la Toscana, diventando un dolce immancabile nelle feste e sagre. Durante le fiere venivano cotti al momento, e così l’inebriante profumo di anice inondava l’aria.

Ce ne dà una bella descrizione Vasco Pratolini, nel suo “Cronache di poveri amanti”: “Il brigidino è il deus ex machina della Fiera. Lo si impasta e cuoce sotto i vostri occhi. Lo si mangia tiepido e croccante. È in virtù del suo richiamo che la gente affolla la fiera. Il brigidino è una cosa di nulla, appena un’ostia di più grandi dimensioni, pure ha una consistenza, una fragranza, un sapore che si scioglie in bocca. I carretti ne sono pieni, dapprima, ma via via che l’ora monta e la folla cresce, si formano le code in attesa davanti ai banchi del fornelletto sul treppiede, ove l’esperto brigidinaio rigira le sue “schiaccie” [sic]. I venditori sono tutti vestiti di bianco, con in testa copricapi da cuochi di grande albergo. Magnificano la merce a squarciagola, persuaso ognuno di essere stato eletto da Santa Brigida in persona a custode del segreto per la confezione del biscotto di cui la Santa fu l’inventore».

Ma i brigidini vennero nominati anche dal grande scrittore e gastronomo Pellegrino Artusi, che li descrisse come “un dolce o meglio un trastullo speciale della Toscana” (“La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, 1891).

Il brigidino, oggi
Col tempo le piastre per produrli sono state personalizzate, per incidere nella fase di cottura del dolcetto-ostia un disegno (fiore, stella dell’anice ecc.). Oggi si trovano anche fuori dal territorio toscano, e la ricetta originale ha subito molte “contaminazioni”, con aggiunta di altri ingredienti. E così possiamo trovare brigidini al gusto di fragola, cioccolato o menta.

CURIOSITÀ sui brigidini
Dal punto di vista strettamente etimologico il termine “Brigidino” ha due significati: il primo è reale e indica una cialda croccante al sapore di anice, il secondo è figurato e sta per “coccarda”.
Questo perché, dalla forma che assume la cialda dopo la cottura è possibile rivenire la sagoma di una coccarda. Nell’uso corrente della lingua fiorentina i due termini diventarono sinonimi tanto che, durante il Risorgimento, ritroviamo perfino un canto popolare intitolato, appunto “Il Brigidino” per inneggiare alla coccarda bianca e rossa a cui i patrioti aggiungevano una foglia verde di verbena per indossare il tricolore senza destare i sospetti degli austriaci.
A comporlo fu il poeta Francesco dall’Ongaro, nel suo periodo fiorentino negli anni Quaranta del 1800, ispirato, sì, dall’orgoglio nazionale del tricolore italiano, ma forse, chissà, anche dall’inconfondibile aroma delle cialde delle monache che avrà sicuramente avuto modo di assaggiare a Firenze.

E lo mio damo se n’è ito a Siena
e m’ha porto il brigidin da’due colori
Il bianco gli è la fe’ che c’incatena
il rosso l’allegria dei nostri cori
ci metterò una foglia di verbena
ch’io stessa alimentai di freschi umori
E gli dirò che il rosso il verde il bianco
gli stanno bene, con la spada al fianco
E gli dirò che il bianco il verde il rosso
vuol dir che Italia il giogo suo l’ha scosso
E gli dirò che il bianco il rosso il verde
è un terno che si gioca e non si perde
Francesco Dall’Ongaro 1848.
Mentre era deputato a Torino, persino il maestro Giuseppe Verdi, il più patriottico dei musicisti italiani che condivideva appieno gli intenti nazionalisti del poeta, si interessò allo stornello dallongariano tanto da musicarlo trasformandolo in romanza per canto e pianoforte, ma conservando il titolo “Il Brigidino”.
Insomma, grazie a un gioco di sinonimi e alla vitalità della lingua parlata, questa piccola cialda fragrante all’anice si è guadagnata l’immortalità artistica, diventando il dolce più patriottico che ci sia!