Mozzarella di bufala: cibo per i pellegrini

Mozzarella di bufala

XII secolo: nel monastero di San Lorenzo a Capua (in Campania) i pellegrini venivano accolti e sfamati con un tozzo di pane e un formaggio spugnoso bianco come il latte, a forma di palla. Era la “mozzarella” o, come veniva chiamata allora, “mozza”.

Pane e “mozza” per rifocillarsi

Una mozza o provatura con un pezzetto di pane era la prestazione che i monaci del monastero di S. Lorenzo in Capua (fondato dalla principessa Aloara, vedova del principe Pandolfo Capo di Ferro) davano in agnitionem dominii al Capitolo Metropolitano il quale ogni anno, per antica tradizione, nella quarta fiera delle legazioni, recavasi processionalmente in quella Chiesa.

Monsignor Alicandri (storico), documenti dell XII secolo (Archivio Episcopale di Capua)

Il monastero era sorto tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo per volontà dalla principessa longobarda Aloara di Capua, una donna forte, con grandi capacità amministrative e politiche: non a caso, dopo la morte del consorte principe di Benevento e Capua Pandolfo I (detto Testa di Ferro, Testaferrata e anche Capodiferro), affiancata dall’Arcivescovo di Benevento Landolfo I, amministrò e governò le sue terre per difenderle dai bizantini.

La principessa diede al nuovo monastero un cospicuo capitale, e chiese al frate benedettino Aldemaro (o Aldemario) di Capua, detto il Saggio per le sue doti amministrative, di lasciare l’abbazia di Montecassino e di tornare nelle sue terre per diventare abate del monastero di Capua.

Origini e diffusione della mozzarella di bufala

La storia della mozzarella di bufala campana, cosi come la conosciamo, è difficile da ripercorrere. I territori in cui veniva maggiormente commercializzata all’inizio erano l’aversano, Capua, Salerno. Ma arrivò perfino a Roma sulla tavola del papa. Almeno dal XVI secolo, quando divenne uno dei prodotti caseari usati dal famoso cuoco delle cucine vaticane Bartolomeo Scappi, definito il “cuoco dei papi” (gestì le cucine della Santa Sede sia sotto papa Pio IV che sotto il suo successore papa Pio V). È grazie a lui che si ritrova il primo riferimento scritto con il temine “mozzarella”. Nel 1570 scrisse un libro di cucina, in cui citava vari formaggi: “…capo di latte, butirro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche et neve di latte…”. Le spoglie di Bartolomeo Scappi vennero sepolte nella chiesa dedicata ai cuochi e ai fornai, Santi Vincenzo e Anastasio alla Regola, oggi non più esistente.

Di fatto, però, fino a che in Italia non venne realizzata una rete ferroviaria che collegasse il Sud con le altre parti, la mozzarella rimase un prodotto semisconosciuto al di fuori del territorio di produzione (soprattutto Campania e Puglia). Il suo sapore si perdeva in pochi giorni e si irrancidiva rapidamente. Oggi, grazie ai moderni mezzi di trasporto, e alla sua straordinaria bontà, è conosciuta e apprezzata in tutto il mondo.

Mozza, provatura e mozzarella

Il nome di questo formaggio cambiava in base al luogo dove veniva prodotta o dove veniva mangiata. Le due denominazioni iniziali più note erano “Mozza” o “provatura”, come ritroviamo in un testo di Pietro Andrea Mattioli, medico senese vissuto nel XVI secolo. Mattioli, riferendosi al latte di bufala scriveva: “…quello di bufala di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che si chiamano mozze, e a Roma provature…”.

Il nome “mozza”, e di conseguente l’attuale “mozzarella”, derivano dal fatto che durante la lavorazione, questo latticino, nella fase in cui l’impasto è ancora molto caldo e filante, viene letteralmente mozzato a mano dai maestri casari: la massa di formaggio viene tenuta da una persona mentre l’altra ne “mozza” un pezzo con indice e pollice, a cui dà la tipica forma tonda. Il tutto tenendo le mani in acqua bollente. Dopodiché le mozzarelle vengono immerse in acqua fredda con sale per rendere la superficie più compatta e saporita. Dopo la lavorazione della mozzarella di bufala, dal siero si ricava la ricotta, altro prodotto caseario campano molto apprezzato.

Bufala, un animale che viene da lontano?

La “mozzarella di bufala campana” è un prodotto campano di origine protetta. È un formaggio fresco e dev’essere realizzato con latte appena munto di sole bufale di “razza bufalina mediterranea italiana” (bubalus bubalis), cresciute nella regione (oggi in realtà la mozzarella di bufala dop viene prodotta anche in alcuni caseifici laziali, pugliesi e del Molise).

Le bufale sono considerate una specie autoctona per il loro millenario adattamento al clima e alle dinamiche correlate (nutrimento e minerali presenti nelle acque, sole…). Ma secondo alcuni studi, esse vennero introdotte in Italia dai Longobardi, o dagli Arabi.

La prima testimonianza scritta sulla presenza dei bufali in Italia si trova in un documento risalente al XIII secolo e custodito oggi tra le mura dell’Abbazia di Farfa (Lazio). Nel documento, il Re Carlo I d’Angiò dava disposizioni per la “restituzione di un bufalo da lavoro”. Altra citazione storica di questo animale ci è stata lasciata dalla penna del grande scrittore, poeta e drammaturgo tedesco Goethe. Durante la sua visita in Campania nel 1787, all’età di 37 anni, oltre alla bellissima Napoli, visitò la rada di Paestum (in provincia di Salerno), dove si trovano i templi a testimonianza dell’antica città della Magna Grecia. Scrisse il poeta:

La mattina ci mettemmo in cammino assai per tempo e percorso una strada orribile arrivammo in vicinanza di due monti dalle belle forme, dopo aver traversato alcuni ruscelli e corsi d’acqua, dove vedemmo le bufale dall’aspetto d’ippopotami e dagli occhi sanguigni e selvaggi. La regione si faceva sempre più piana e brulla: solo poche casupole qua e là denotavano una grama agricoltura.

Mozzarella a rischio di estinzione

Grazie alla loro forza, stazza (pesano quasi 5 quintali), longevità e soprattutto adattabilità, le bufale furono inserite in habitat paludosi poco ospitali del sud Italia: terreni che per le mucche sarebbero risultati fatali, a causa del clima caldo-umido e dei parassiti, fonti di malattie di vario genere. Le bufale invece trovavano in questi luoghi inospitali e acquitrinosi, dal clima caldo-umido, dei “pascoli ideali”. Amavano dimorare nel fango, vi si sdraiavano per rinfrescarsi, e quando il fango si seccava portava via anche parassiti e insetti presenti sulla loro pelle. Inoltre si muovevano molto bene nella palude, grazie alla conformazione dei loro zoccoli piatti, che gli permettevano di tirarsi fuori agevolmente dal pantano. Inoltre, le bufale venivano usate per la lavorazione dei campi semi-sommersi.

Durante il fascismo, per dare nuove terre ai contadini moltissime piane paludose, come le rive del fiume Volturno, furono bonificate, sottraendo così “pascoli” alle bufale. Il loro numero si ridusse drasticamente, fino al rischio di estinzione. Solo in seguito, con la riscoperta e la diffusione della mozzarella, vi fu un nuovo incremento di allevamenti di bufale.

Mozzarella di bufala reale

I Borboni furono degli estimatori delle mozzarelle e delle bufale (facevano anche battute di caccia alla bufala). Non a caso, fecero realizzare un allevamento di cavalli, mucche e bufale nella loro tenute reali di Capodimonte a Napoli e di Carditello a Capua (real sito di Carditello, reggia di Carditello, chiamata così a causa della massiccia presenza di piante di cardo).

Quest’ultima residenza reale fu progettata su richiesta di Carlo III di Borbone, per il suo desiderio di rivoluzionare e arricchire il Regno di Napoli, dall’architetto Francesco Collecini, “protetto” del Vanvitelli. Nella progettazione era previsto anche un attento sviluppo delle vaccherie e ‘bufalare’ e della parte agricola concepita come un’azienda.

Non solo: per poter realizzare internamente alle proprietà i formaggi da commercializzare, furono creati veri e propri caseifici. Questo fece diffondere ulteriormente il consumo in generale dei latticini di bufala, compresa la mozzarella, nel territorio capuano e nel napoletano.